Il New Climate Institute di Berlino ha pubblicato i risultati della seconda edizione dello studio “Corporate Climate Responsibility Monitor”, che valuta l’integrità delle strategie climatiche di 24 grandi aziende internazionali che rivendicano il loro impegno nell’ambito della lotta al climate change.
Come già constatato nel 2022, “Maersk” si riconferma l’unica azienda alla cui integrità della strategia climatica sia stato assegnato il giudizio “ragionevole”.
Sono otto le aziende di cui è stata valutata l’integrità della strategia climatica come “moderata”: Apple, ArcelorMittal, Google, H&M Group, Holcim, Microsoft, Stellantis e Thyssenkrupp.
Le strategie delle altre quindici aziende prese in esame, invece, hanno ottenuto il giudizio “basso” o “molto basso” per quanto riguarda il loro livello di integrità.
Le multinazionali sfruttano gli impegni a lungo termine per distogliere l’attenzione dall’inadeguatezza delle azioni intraprese finora e dei loro piani a breve termine: mediamente, sono più del 50% fuori traiettoria rispetto all’obiettivo richiesto entro il 2030 per mantenere la temperatura al di sotto del limite di 1,5°C.
Ci sono, però, alcuni segnali di progresso. Maersk e Stellantis, per esempio, stanno assumendo impegni credibili per una reale riduzione delle emissioni. La decisione di Stellantis di limitare l’uso delle compensazioni a meno del 10% delle sue emissioni del 2021 stabilisce un’importante base di riferimento per il settore, oltre all’ambizioso obiettivo di ridurre le emissioni del 50% lungo l’intera catena del valore nel 2030.
Tuttavia, le cattive pratiche di compensazione emergono con chiarezza in tutto il set di dati.
Almeno tre quarti delle aziende analizzate fa largo uso di compensazioni legate alla silvicoltura e all’uso del suolo.
Se tutte le aziende adottassero lo stesso approccio di queste grandi “aziende leader nella sostenibilità” ci vorrebbero da 2 a 4 pianeti Terra in più per soddisfare la domanda di queste rimozioni di carbonio. Alcune aziende (come Apple, DHL, Microsoft e Google) si dichiarano già oggi “carbon neutral”, ma queste dichiarazioni si riferiscono, in media, solo al 3% delle effettive emissioni.
A conferma di una generale mancanza di miglioramenti rispetto alla prima edizione del report, l’organizzazione ha riscontrato che “l’impegno delle imprese per il net zero sul lungo periodo continua a essere contraddistinto dall’ambiguità e ha lo scopo di distogliere il focus dall’urgente necessità di ridurre le emissioni nell’arco del decennio in corso”.
Nel complesso, le aziende oggetto della valutazione approfondita si impegnano a ridurre solo il 15% delle emissioni nell’intera catena del valore entro il 2030 o, nell’interpretazione più ottimistica delle loro strategie, il 21%.
L’obiettivo da ottenere a livello globale per limitare l’aumento della temperatura a circa 1,5°C è una riduzione del 43% delle emissioni di gas serra; rispetto a tale traguardo, è evidente che le aziende non siano ancora a metà strada.
Solo una piccola minoranza di aziende, tra cui Maersk e Stellantis, sta assumendo impegni potenzialmente credibili per quanto riguarda una decarbonizzazione significativa entro il 2030 e oltre tale scadenza.
Tuttavia, queste aziende vengono messe sullo stesso piano di altre, tra cui American Airlines, Carrefour, Deutsche Post DHL, Fast Retailing (Uniqlo), Inditex (Zara), Nestlé, PepsiCo, Volkswagen e Walmart, che fanno dichiarazioni analoghe e menzionano le proprie certificazioni SBTi a difesa di strategie climatiche che in realtà mostrano un impegno molto limitato nella riduzione delle emissioni.
Molti dei problemi di fondo individuati un anno fa restano irrisolti: per quanto riguarda Carrefour, per esempio, sembra che oltre l’80% dei suoi negozi sia stato escluso dai suoi obiettivi; Nestlé, invece, ha fissato un obiettivo del 50% di riduzione delle emissioni entro il 2030, che in realtà si traduce in un impegno a ridurre le emissioni dell’intera catena del valore solo del 16-21%, in quanto alcune fonti di emissione sono state escluse e i piani di compensazione sono controversi.
Una preoccupazione fondamentale è che le pratiche di compensazione, al di là delle varie denominazioni con cui si fa riferimento a esse, pregiudichino il conseguimento reale degli obiettivi e traggano in inganno i consumatori.