Non ce ne rendiamo conto, ma tutte le volte che facciamo un pieno di benzina mettiamo il 10% di biocarburanti (di solito bioalcol) dentro il nostro serbatoio. Il 10% può sembrare una percentuale modesta, ma se consideriamo che in Italia (prima del Covid) si consumavano circa 40 miliardi di litri di benzina ogni anno, risultano 4 miliardi di litri di biocarburante, corrispondenti a circa 3,1 milioni di tonnellate; questo quantitativo è destinato ad aumentare in un prossimo futuro, sotto la spinta delle direttive europee.
Attualmente, la maggior parte del bioalcol (che è poi normalissimo alcool etilico, come quello presente nel vino e nei liquori) proviene dalla fermentazione di zuccheri di scarto e di amidi; ma l’Unione Europea ha già decretato (Direttiva RED II sulle Energie Rinnovabili) che i cosiddetti “biocarburanti di prima generazione” dovranno diminuire la loro presenza sul mercato, fino a ridursi al 3,8% massimo entro il 2030. In effetti, i benefici ambientali dell’uso del bioetanolo (in particolare, la riduzione delle emissioni di CO2 da fonti fossili) risultano compromessi dagli effetti negativi derivanti dalla sottrazione di terra alle coltivazioni alimentari; per ottenere biocarburanti realmente ecocompatibili occorre partire dalle cosiddette “biomasse residue”, cioè residui agro-forestali, piante ottenute da coltivazioni su terreni marginali (inadatti alle colture alimentari), oli di frittura usati e rifiuti non riciclabili in genere.
Biocarburanti di seconda generazione
Come avviene per i processi industriali, anche per i biocarburanti si sta perdendo il conto delle “generazioni”. Per usare la terminologia introdotta da Earth2Tech, possiamo distinguere:
– biocarburanti di prima generazione, ossia quelli ottenuti da colture di tipo alimentare (mais, soia, palma, canna da zucchero, oli vegetali per il biodiesel)
– biocarburanti di seconda generazione, che utilizzano biomasse residuali, con minimo o nullo contenuto di amidi o zuccheri, e quindi non adatte per l’alimentazione umana, oppure colture erbacee non commestibili, come la jatropha. Queste biomasse sono in genere costituite da tre componenti, ossia cellulosa, emicellulosa e lignina, e vengono quindi genericamente indicate come “biomasse lignocellulosiche”
– biocarburanti di terza generazione, che impiegano biomasse non alimentari geneticamente modificate, come alberi di pioppo a basso contenuto di lignina
– biocarburanti di quarta generazione, che usano biomasse (naturali o geneticamente modificate) capaci di catturare la CO2 e trasformarla in materie prime per la produzione di carburanti. Attualmente si tratta soprattutto di alghe fotosintetiche e cianobatteri, che (analogamente alle piante) utilizzano la CO2 per costruire la matrice cellulosica di sostegno e producono materiali oleosi (trasformabili in biodiesel) come riserve metaboliche.
La terza e la quarta generazione sono attualmente oggetto di numerose e promettenti sperimentazioni, ma non sono ancora mature per sviluppi industriali. Ci concentreremo quindi sui carburanti di seconda generazione, che già vengono prodotti in impianti pilota, o sono comunque prossimi ad una “esplosione” su larga scala.
Esempi di biocarburanti di seconda generazione sono il bioteanolo lignocellulosico o i combustibili “Biomass-To-Liquid” (BTL), come ad esempio quelli Fischer-Tropsch (tra cui FT-Diesel); ma citiamo anche il dimetiletere (DME) e il biobutanolo. Sul fronte dei carburanti per motori diesel dominano i processi termochimici (pirolisi e gassificazione), con successivi passaggi attraverso la sintesi Fischer-Tropsch.
Questi biocombustibili di seconda generazione sono prodotti mediante processi che possono essere riassunti in due classi: processi biochimici e processi termochimici. I primi sono basati sull’utilizzo di enzimi o microorganismi, mentre i secondi utilizzano essenzialmente calore e talvolta pressione.
Processi biochimici
I processi biochimici richiedono due passaggi: scissione della cellulosa in zuccheri semplici, che può avvenire per attacco chimico, per azione di microorganismi o per azione di enzimi; fermentazione degli zuccheri per ottenere alcool.
Il secondo passaggio è ben conosciuto. Tutte le difficoltà si concentrano nella scissione della cellulosa, che finora è stata realizzata con diversi processi, tutti però ancora a livello di impianti pilota o poco più. Il passaggio alla fase industriale richiede una valutazione economica molto attenta; ad esempio, i vecchi processi di attacco chimico (utilizzati industrialmente fino alla metà del secolo scorso) risultano oggi antieconomici perchè richiedono troppa energia e hanno rese troppo basse. Nonostante tutti i perfezionamenti, attualmente ottenere bioetanolo dalla cellulosa costa tre volte più che ottenerlo dalla canna da zucchero.
La biomassa lignocellulosica è costituita principalmente da cellulosa, emicellulosa, lignina più altri componenti organici e inorganici (sali minerali), i cui rapporti possono variare in funzione della tipologia o natura della biomassa. La struttura compatta determinata dalla cristallinità della cellulosa e dalla struttura tridimensionale della lignina rende difficile la trasformazione di questi materiali; è perciò necessaria una fase di pretrattamento per modificarne la morfologia, favorendo la rottura dei legami chimici tra i vari componenti della biomassa, per rendere più efficiente l’azione degli agenti biologici e chimici. Generalmente la fase di pretrattamento è di tipo idrotermico (trattamento di “steam explosion”), il cui risultato è la destrutturazione a livello molecolare della biomassa, che rende più facile e meno impegnativa la separazione delle tre componenti emicellulosa, cellulosa e lignina. Il processo risulta particolarmente interessante perchè comporta l’utilizzo di impianti relativamente economici e non richiede l’uso di particolari prodotti chimici. Un esempio di impianto di steam explosion è attivo presso il Centro Enea della Trisaia: il trattamento consiste nell’uso di vapore saturo ad alta pressione per riscaldare rapidamente la biomassa, che è mantenuta ad una temperatura compresa tra 180 e 220 °C per un massimo di 10 min. Successivamente, la pressione viene riportata a livello di quella atmosferica realizzando una decompressione esplosiva che sfibra ulteriormente la biomassa, rendendola immediatamente pronta per l’utilizzo mediante processi di idrolisi della cellulosa e successiva fermentazione alcolica degli zuccheri, arrivando così alla la produzione di bioteanolo.
Un altro metodo di scomposizione della cellulosa in zuccheri fermentabili si basa su nuovi enzimi, ottenuti sia per via naturale che per ingegneria genetica. Il progetto europeo DISCO ha studiato nuovi enzimi e il loro modo di funzionamento, isolando enzimi da colture fungine che hanno mostrato interessanti e promettenti caratteristiche di idrolisi totale di biomassa lignocellulosica. Funghi geneticamente modificati sono utilizzati dall’americana Dyadic International per produrre enzimi (cellulasi, xilanasi ed emicellulasi) con i quali dovrebbe essere possibile convertire una grande varietà di residui agricoli (tutoli di mais, paglia, bagassa di canna da zucchero) e anche erbe come il panico verga.
Alcuni batteri sono perfino in grado di convertire direttamente la cellulosa in etanolo, come fa il Clostridium thermocellum. Questo batterio, tuttavia, produce anche altre sostanze che riducono l’efficienza del processo, per cui si sta cercando di modificarlo geneticamente per ottimizzare la produzione di etanolo. Un altro batterio capace di compiere la “fermentazione diretta” della biomassa cellulosica in etanolo è stato scoperto dalla statunitense Qteros, che ha denominato il batterio “QMicrobe”, e sta costruendo un impianto pilota a Springfield (Massachusetts) basato su questa tecnologia.
Processi termochimici
Una via radicalmente diversa è quella dei cosiddetti “processi BTL” (Biomass To Liquid), che puntano alla valorizzazione integrale della biomassa mediante pirolisi, arrivando ai biocarburanti mediante reazioni chimiche. Il processo è analogo a quello che veniva usato in Germania durante la 2a Guerra Mondiale per ottenere benzina dal carbone.
Dal punto di vista tecnico il processo è noto e largamente sperimentato e si compone di 3 fasi:
– gassificazione a bassa temperatura, che inizia con lo sbriciolare ed essiccare il materiale organico che viene poi scaldato a 400-500 °C in assenza di aria, con conseguente formazione di un gas contenente idrocarburi, catrame e carbonio solido
– gassificazione ad alta temperatura, in cui il gas ottenuto dalla prima fase viene riscaldato a 1.400 °C in presenza di una piccola quantità di aria o ossigeno puro, così da ottenere l’ossidazione del catrame degli idrocarburi, con formazione di ossido di carbonio e idrogeno
– sintesi di Fischer-Tropsch, mediante la quale l’ossido di carbonio e idrogeno vengono fatti reagire su un letto catalitico di ossidi metallici supportati su farina fossile, a 170-220 °C e pressione fino a 10 atm. Si ottengono idrocarburi con diversi pesi molecolari, che devono essere separati per distillazione. La frazione altobollente è un ottimo carburante per motori Diesel, mentre la frazione bassobollente (analoga alla benzina) deve essere trattata su reforming catalitico per aumentare il numero di ottano.
In alternativa alla sintesi Fischer-Tropsch, i prodotti ottenuti dalla gassificazione ad alta temperatura possono essere: convertiti in biometanolo a 400 °C a 0-80 atm su catalizzatori a base di ossido di cromo e ossido di zinco, oppure fermentati grazie al microorganismo Clostridium ljumdahlii, che produce direttamente etanolo (poi separato per distillazione) ed acqua. Quest’ultimo processo è già utilizzato su scala industriale dalle società CosKata, Ineos Bio e Lanza Tech.
Biocarburanti dai rifiuti
I processi termochimici sopra descritti possono essere adattati alla frazione organica dei rifiuti; è sufficiente eliminare le frazioni non combustibili e le materie plastiche. Il processo è da tempo sfruttato dalla società svedese St1 Biofuels, che ha messo a punto il processo Etanolix, che produce ogni anno circa 100 milioni di litri di bioetanolo utilizzando i sottoprodotti del processo come componenti di mangimi per animali.
Un’altra realizzazione degna di nota è l’impianto della cittadina canadese di Edmonton, inaugurato nel 2014. La frazione organica dei rifiuti viene trasformata in bioetanolo e biometanolo; l’impianto è costato 100 milioni di dollari e produce 36.000 mc di biocarburanti l’anno.
Da citare, infine, il processo “Waste to Fuel” dell’Eni: si tratta di una termoliquefazione a circa 300 °C, che in un tempo di 2-3 ore trasforma i rifiuti in “bio-olio”, che viene sottoposto agli stessi processi di raffinazione del petrolio grezzo. Attualmente nella raffineria Eni di Gela è stato realizzato un impianto pilota, che tratta 700 kg/giorno di rifiuti organici, ottenendo 70 litri/giorno di bio-olio.